Category

Punti di vista

Category
(di redazione). È la triste storia di un grande campione di calcio. Maurizio Schillaci, 51 anni, cugino del più noto Totò ed ex stella della Lazio negli anni ottanta. Dopo anni di successi e di gloria, Schillaci oggi vive a Palermo da barbone, dormendo per strada o nei vagoni dei treni fermi alla stazione.


Nato in uno dei quartieri popolari di Palermo, a 17 anni Schillaci fa il suo esordio con la maglia rosanero. Viene notato dal “visionario” e “estroso” allenatore Ceco, Zdeněk  Zeman, che lo vuole nel Licata e qualche anno dopo lo porta al Foggia. Quindi il passaggio alla Lazio. Ma è anche l’inizio dei suoi guai, proprio negli stessi anni in cui suo cugino Totò diventa famoso in tutto il mondo.“Tutti dicevano che ero più forte di mio cugino, può essere. Di sicuro io non ho avuto la sua fortuna. Sono passato dalle stelle alle stalle.  Le mie stagioni migliori le ho vissute in B con Zeman. Segnavo gol a ripetizione”.
 “Subito dopo è arrivata la Lazio. È stato il mio periodo di grazia. Vivevo nel lusso, ho cambiato 38 auto, ho giocato nello stadio dei sogni, l’Olimpico. Contratto da 500 milioni di lire dell’epoca per quattro anni, ma poi qualcosa non va più per il verso giusto. Arrivano i primi infortuni e lo stop. Vado in prestito a Messina, là trovo mio cugino Totò. Tutti i giornali parlavano di noi, io e lui facevamo a gara a chi segnava di più. Ma la mia carriera in realtà si spezza a Roma. Un infortunio mai curato che mi impedisce di esprimermi al meglio”.
 “Dopo l’infortunio scopro di aver un tendine bucato. A Messina si accorgono del problema, mi curano, ma la carriera è ormai volata via. Vado alla Juve Stabia, ma ormai ho 33 anni. E qui conosco la droga. La cocaina, poi l’eroina. Nel frattempo divorzio da mia moglie. Il mio declino è stato velocissimo e ora mi ritrovo per strada”.
 “Come si vive in strada mi chiedi? La prendo quasi a ridere, mi diverto, sdrammatizzo, cerco di farcela. Ma non riesco a trovare lavoro, dormo nei treni fermi alla stazione. Lo chiamano il cimitero dei treni. Ci sono altre persone con me, siamo un gruppo di 20 barboni. Passo le giornate pensando a racimolare qualcosa per mangiare e comprarmi le sigarette”.

 

Ho sempre ritenuto Berlusconi un maestro di ingegno. Di quelli sagacemente abili nel trasformare i tanti ranocchi del suo stagno in principi da corte. Dote direi rarissima, ma indiscutibilmente vera. Nessuna possibilità di smentita o di dubbio. Quasi come un dogma da filiazione estrema.


Il suo ego autocelebrativo non ha eguali, anche se io sostengo che se si cerca bene, nelle pieghe di questo nostro Paese, qualche altro Mr. B. in fasce lo troveremmo sicuramente. Ma mi spiego meglio. In tempi diciamo non sospetti, cioè quando l’uomo di Arcore era ancora lontano dalla politica, lui era già un incredibile venditore di se stesso e delle sue aziende. Uno straordinario calumet, un cerimoniere che ammaliava le platee di tutta Italia dispensando consigli e segreti ai suoi venditori. Publitalia docet. Diceva sempre: “Ricordate che ai clienti bisogna parlare per immagini piuttosto che per concetti. La logica convince ma viene presto dimenticata, invece l’immagine colpisce e viene sempre ricordata”. Insegnamenti “sacri” di cui gli italiani hanno fatto tesoro per quasi un ventennio.
Però, c’è sempre un però nella storia di ognuno di noi. Silvio, l’uomo dalla statura del rialzo, l’Araba fenice del secondo millennio, ci sorprende ancora e ci lascia trasecolati anche nei suoi riti epistolari a noi conosciuti: dal contratto con gli italiani fino agli opuscoli elettorali puntualmente recapitati ai nostri domicili a qualche giorno dal voto. Ed è proprio nella lettera che ho trovato nella mia cassetta postale il manifestarsi di tutto il mio stupore. 
Lui, il venditore di Arcore, che scrive per ricordarmi tutto ciò che ha fatto e farà per il nostro bene chiedendo, infine, il mio sostegno alla sua battaglia politica. Leggo e rileggo le righe. Ma all’improvviso mi accorgo che il “Caro Francesco” a cui lui si rivolgeva non potevo essere io. Guardo bene la busta e mi accorgo che il destinatario era mio padre che, nell’aprile del 2008, aveva lasciato la vita terrena per l’eterno riposo. Sorrido e per un attimo il mio pensiero va al mio caro papà riportato in vita, per qualche istante, da Berlusconi. Se non è questo il vero miracolo italiano: riuscire a scrivere e a parlare persino ai morti.

di Gaetano Càfici Io sono figlio della libertà e lo resterò per sempre”. La prende così il Presidente della Regione Crocetta alle parole del capogruppo del Pds all’Ars Roberto di Mauro, secondo cui “una nuova maggioranza politica mette con le spalle al muro Crocetta con l’obiettivo di imprigionarlo ed imbrigliarlo”.

“Deve ancora nascere chi mi metterà con le spalle al muro”. Ribatte sonoramente ! “Forse ancora non mi conoscono molto bene negli ambienti politici. Chi pensa che io possa restare imbrigliato in strane maggioranze si sbaglia di grosso”. E poi passa al rito della citazione : “i sufi sono figli della libertà come me e dicevano ‘Dio mio, il giorno del giudizio fammi risorgere incatenato’. In altre parole mi pongo il problema di autolimitarmi la libertà perché sono un uomo molto libero, figuriamoci se mi faccio trattenere dall’esterno”. Ma qui supera se stesso ! “Una cosa è certa  non ho mai accettato le imposizioni nella mia vita, sono sempre stato aperto a ogni confronto o discussione. E sbaglia chi pensa che io mi faccia incatenare. Nessuno immagini che dentro un accordo istituzionale ampio io possa essere schiacciato”.

Più che figlio della libertà, concetto nobile, assolutamente serio, e  poco assimilabile, se non demagogicamente, ad un contesto politico, direi che Crocetta è l’esatto opposto del mio figlio delle stelle, ma non quello canzonettaro.Vi racconto la storia. Esisteva veramente un figlio delle stelle che nelle serate estive di molti anni fa, guardava il cielo e mi raccontava il domani. Mi diceva del bello e del cattivo tempo. Era un pescatore. Io lo ascoltavo rapito dalla sua voce roca, dalle sue mani che sembrano cucite dalle reti che ogni sera all’imbrunire andava a calare assieme alle sue nasse. Mi parlava del vento, del maroso, e di quanto il mare poteva dare la vita ma allo stesso tempo servire la morte. Ero un giovane ragazzo che gli voleva bene. Una mattina, dopo averlo visto partire la sera prima per la sua battuta di pesca, lo aspettai come facevo sempre sulla spiaggia di Puntaraisi. Ma non tornò più.  Lui per me è il vero figlio della libertà e delle stelle. Libertà che mi piace coniugare anche con la parola umiltà.  Presidente Crocetta, quando può, ascolti il rumore del mare e sentirà la voce di libertà del mio caro amico pescatore: figlio delle stelle e del suo mare.