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Un annuncio scontato, quello del 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America che, dopo la schiacciante vittoria contro la candidata democratica Kamala Harris, parla di stop alle guerre e inizio di un’epoca d’oro per l’America.

Nel suo discorso di insediamento, il neo presidente Donald Trump ha promesso un cambiamento epocale nella politica internazionale e interna. Queste parole, ricche di ambizione e cariche di speranza, hanno suscitato reazioni diverse, entusiaste da una parte, scettiche dall’altra, nel contesto di un paese diviso da anni di polarizzazione politica e conflitti a livello globale.

L’affermazionefermerò le guerre” non è solo una promessa, ma un vero e proprio impegno per una diplomazia più incisiva e orientata alla pace, segnalando una svolta rispetto alla politica di interventismo militare che ha caratterizzato molte amministrazioni americane. Il presidente intende dare priorità alla risoluzione pacifica dei conflitti, investendo nella diplomazia, nel dialogo e nella cooperazione internazionale per stabilire relazioni basate sul rispetto reciproco.

Ma cosa significa “età dell’oro” per gli Stati Uniti e il mondo? L’idea sembra riferirsi a un periodo di prosperità economica, progresso sociale e stabilità globale. Il nuovo presidente ha sottolineato la necessità di affrontare le disuguaglianze economiche, garantendo un’economia più equa e sostenibile per tutti. Si parla di investimenti in infrastrutture, energie rinnovabili, educazione e sanità, promuovendo una crescita inclusiva che possa beneficiare tutte le fasce della popolazione.

Tuttavia, l’ambizione di inaugurare un’età dell’oro non sarà facile da realizzare. Le tensioni geopolitiche con potenze come Cina e Russia, la necessità di affrontare il cambiamento climatico e le sfide legate alle crisi migratorie e sanitarie globali rappresentano ostacoli significativi. Alcuni critici, infatti, sostengono che questa visione rischia di rimanere idealistica se non sarà sostenuta da azioni concrete e da una strategia ben delineata.

Le promesse di Trump sono senza dubbio un segnale di speranza e una spinta verso una politica più pacifica e progressista. Ma resta da vedere se riuscirà a trasformare questa visione in realtà, affrontando con determinazione e pragmatismo le complesse sfide che il mondo di oggi presenta.

(fonte foto euronews.com )

 

 

La situazione nel sud del Libano si è nuovamente infiammata, dopo che le forze israeliane hanno condotto un attacco che ha colpito le basi delle Nazioni Unite, causando il grave ferimento di due caschi blu. Questo nuovo episodio segna un’escalation preoccupante in una regione già caratterizzata da continue tensioni tra Israele, Hezbollah e altri attori locali.

Ad intervenire sulla vicenda è il ministro italiano degli Esteri e vicepremier, Antonio Tajani che, entrando a Torino nel Grattacielo della Regione Piemonte, ha condannato quanto avvenuto. “Quello che sta accadendo è inaccettabile. I soldati italiani non si toccano, non sono militanti di Hezbollah. Oggi abbiamo scritto di nuovo al ministro degli Esteri israeliano: aspettiamo che facciano l’inchiesta e, visto che ci sono prove inequivocabili che sono stati i soldati israeliani a sparare contro le basi Unifil, e stamattina c’è stato un altro incidente in una base in cui c’erano una settantina di soldati italiani, ribadisco che è inammissibile”.

L’attacco e le vittime

Secondo fonti ufficiali, le forze israeliane hanno lanciato un attacco contro una delle postazioni della missione UNIFIL (Forza di Interposizione delle Nazioni Unite in Libano), che si trova nella zona di confine tra Israele e Libano, nota come Linea Blu. Due membri del personale di pace delle Nazioni Unite sono stati gravemente feriti durante l’attacco, mentre altri operatori sono rimasti illesi, ma profondamente scossi dall’accaduto. Le identità dei feriti non sono state ancora divulgate, in attesa di informare le famiglie.

Le Nazioni Unite hanno espresso profonda preoccupazione per l’incidente, denunciando una grave violazione del diritto internazionale che protegge le missioni di pace. Il segretario generale dell’ONU ha chiesto una spiegazione urgente da parte delle autorità israeliane, sottolineando la necessità di evitare ulteriori atti di violenza contro il personale delle Nazioni Unite.

Il contesto delle tensioni

Questo attacco si inserisce in un contesto di tensione crescente lungo il confine tra Israele e Libano. Hezbollah, il gruppo armato sciita che opera nel sud del Libano e gode del supporto iraniano, è considerato da Israele una minaccia costante. Sebbene la missione dell’UNIFIL sia stata creata proprio per garantire il mantenimento della pace nella regione, spesso si trova tra due fuochi, con Hezbollah da una parte e le forze israeliane dall’altra.

Israele ha giustificato il suo attacco affermando che le sue operazioni militari nella zona sono volte a prevenire attacchi imminenti di Hezbollah. Tuttavia, l’attacco alle basi ONU rischia di compromettere la già delicata situazione e di creare ulteriore attrito non solo con il Libano, ma anche con la comunità internazionale, che potrebbe vedere Israele come responsabile della destabilizzazione della regione.

La reazione delle Nazioni Unite e della comunità internazionale

La missione UNIFIL è stata creata con l’obiettivo di monitorare la cessazione delle ostilità tra Israele e Libano, e di assistere il governo libanese nel mantenimento della sicurezza nel sud del paese. Gli attacchi contro le sue basi rappresentano non solo un rischio per la vita dei suoi membri, ma anche una sfida alla legittimità della sua presenza.

Il Segretario Generale dell’ONU ha chiesto con fermezza che tutte le parti coinvolte rispettino l’integrità e la neutralità delle forze di pace. Anche diversi paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno condannato l’attacco, con richieste di investigazioni e risarcimenti per i danni subiti dalle truppe internazionali.

Le Reazioni del Libano e di Hezbollah

Il governo libanese ha condannato l’attacco come una violazione della sua sovranità e ha richiesto un intervento immediato delle Nazioni Unite per proteggere i civili e il personale internazionale. Hezbollah, dal canto suo, ha rilasciato una dichiarazione in cui denuncia le azioni di Israele, definendole una provocazione intesa a innescare nuovi scontri nella regione. Anche se per ora non sono state segnalate ulteriori rappresaglie da parte di Hezbollah, l’atmosfera lungo il confine rimane estremamente tesa. Ogni nuovo attacco potrebbe portare a una spirale di violenza che sfuggirebbe rapidamente al controllo.

Le conseguenze a livello regionale e globale

L’incidente ha già iniziato a sollevare preoccupazioni a livello internazionale, con potenziali ripercussioni geopolitiche. Mentre Israele difende la propria sicurezza, la comunità internazionale guarda con apprensione alla possibilità che questa escalation possa sfociare in un conflitto su vasta scala. Gli attori internazionali, come gli Stati Uniti e l’Unione Europea, potrebbero intervenire diplomaticamente per prevenire ulteriori violenze e ristabilire un dialogo tra le parti.

Inoltre, l’attacco rischia di minare la credibilità dell’UNIFIL e della sua capacità di operare efficacemente nella regione. Se la sicurezza del personale ONU non può essere garantita, potrebbe essere necessario un ripensamento del ruolo delle forze di pace, o almeno un rafforzamento delle misure di protezione per evitare ulteriori incidenti simili.

L’attacco israeliano alle basi ONU nel sud del Libano, con il grave ferimento di due caschi blu, rappresenta un nuovo e pericoloso sviluppo nelle tensioni in Medio Oriente. Mentre le conseguenze a breve termine rimangono incerte, la comunità internazionale dovrà muoversi con urgenza per evitare che questa escalation porti a un conflitto più ampio. Israele, Hezbollah e il Libano si trovano su una sottile linea di equilibrio, e ogni passo potrebbe determinare il futuro della pace nella regione.

(fonte foto Ansa)

Gli atti ostili compiuti e reiterati dalle forze israeliane potrebbero costituire crimini di guerra, si tratta di gravissime violazioni alle norme del diritto internazionali, non giustificate da alcuna ragione militare”. Ad affermarlo è il ministro italiano della Difesa, Guido Crosetto.

“Su un eventuale ritiro di Unifil dal sud del Libano – aggiunge l’esponente del governo Meloni – la decisione spetterebbe alla comunità internazionale ma non siamo ancora a quel punto”. La vicenda riguarda il grave incidente che ha colpito la postazione 1-31 di Unifil in Libano da parte di soldati israeliani.

“Ho detto all’ambasciatore di riferire al governo israeliano che le Nazioni Unite e l’Italia non possono prendere ordini dal governo israeliano. Gli atti avvenuti non hanno una motivazione militare. Aspettiamo la risposta per capire cosa abbia portato a fare ciò che è avvenuto. Non sono colpi partiti per errore”.

“Questi incidenti sono intollerabili, devono essere accuratamente e decisamente evitati. Per tali motivi ho protestato con il mio omologo israeliano e con l’ambasciatore di Israele in Italia. Ho trasmesso una comunicazione formale alle Nazioni Unite per ribadire l’inaccettabilità di quanto sta accadendo nel Sud del Libano e per assicurare la piena e costruttiva collaborazione dell’Italia a tutte le iniziative militari volte a favorire una de-escalation della situazione e il ripristino del diritto internazionale. La sicurezza dei militari italiani schierati in Libano rimane una priorità assoluta per me e per tutto il governo italiano, affinchè i paecekeeper italiani continuino la loro opera di mediazione e di sostegno alla Pace e alla stabilità del Libano e dell’intera regione”.

Crosetto, subito dopo la notizia dell’attacco alla sicurezza del personale militare ha ribadito che deve essere “scongiurato ogni possibile errore che possa mettere a rischio i soldati, italiani e di Unifil. Con il presidente del Consiglio Giorgia Meloni c’è piena intesa sul fatto che la sicurezza dei militari italiani schierati in Libano è la priorità assoluta. La sicurezza è l’unico modo per garantire che i nostri soldati italiani continuino la loro opera di mediazione e di sostegno alla pace e alla stabilità nella regione”.

IL VIDEO DELLA CONFERENZA STAMPA DEL MINISTRO GUIDO CROSETTO

(fonte foto Repubblica, video Agenzia Vista)

Nelle ultime settimane, il tema della sicurezza globale e della stabilità geopolitica è tornato al centro del dibattito internazionale, alimentato dalle dichiarazioni rilasciate dalla portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova che parla del “rischio di una guerra nucleare, cresciuta significativamente a causa delle politiche considerate provocatorie e distruttive messe in atto dall’Occidente”.

Le parole di Zakharova non lasciano spazio a interpretazioni: “L’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, continua a intraprendere una politica di escalation e pressione che non fa altro che avvicinare il mondo a una possibile catastrofe nucleare”, ha affermato durante una recente conferenza stampa. Per la diplomatica russa, le azioni degli Stati Uniti e dei suoi alleati della NATO stanno minando ogni possibilità di dialogo e cooperazione internazionale, contribuendo a un clima di crescente tensione tra le potenze nucleari.

Le accuse alla NATO e il contesto geopolitico
Zakharova ha puntato il dito in particolare contro le operazioni della NATO ai confini della Russia e l’espansione dell’Alleanza Atlantica in Europa orientale, considerate da Mosca come una minaccia diretta alla sua sicurezza nazionale. La portavoce ha inoltre criticato l’invio di armamenti avanzati e il sostegno militare e finanziario fornito da diversi paesi occidentali all’Ucraina, interpretato dal Cremlino come un tentativo di “contenere” la Russia e di destabilizzare ulteriormente la regione.

Secondo l’analisi russa, l’Occidente starebbe spingendo il mondo verso una nuova corsa agli armamenti, simile a quella della Guerra Fredda, ma con rischi ancora più elevati data l’elevata instabilità globale e la mancanza di meccanismi di controllo delle armi e dialogo tra le grandi potenze.

Le conseguenze per la sicurezza globale
Le dichiarazioni di Zakharova arrivano in un momento delicato, caratterizzato da un’escalation retorica tra Mosca e le capitali occidentali, con ripetuti richiami a un possibile impiego dell’arsenale nucleare russo nel caso di minacce alla sopravvivenza dello Stato. La portavoce ha sottolineato come, a differenza dell’Occidente, la Russia mantenga una dottrina nucleare “puramente difensiva”, che prevede l’uso delle armi nucleari solo in risposta a un attacco diretto con armi di distruzione di massa o a una minaccia esistenziale per il Paese.

Questa presa di posizione si inserisce in un contesto di crescente sfiducia reciproca e ridotta comunicazione tra le parti. Le recenti decisioni di sospendere alcuni trattati chiave sul controllo degli armamenti, come il New START, e di ridurre al minimo i contatti militari bilaterali tra Russia e Stati Uniti, hanno ulteriormente indebolito le strutture di sicurezza che finora avevano contribuito a prevenire un conflitto nucleare.

La reazione dell’Occidente
Le affermazioni di Zakharova sono state accolte con scetticismo e preoccupazione dalle capitali occidentali. I portavoce della NATO e del Dipartimento di Stato americano hanno respinto le accuse russe, affermando che l’Alleanza e i suoi membri non hanno intenzione di provocare un confronto diretto con la Russia e che tutte le iniziative prese finora sono esclusivamente difensive e finalizzate a garantire la sicurezza dei paesi membri.

Tuttavia, la retorica di Mosca sembra mirata a consolidare il sostegno interno e a rafforzare la narrativa di una Russia accerchiata e minacciata da forze esterne, alimentando così il consenso attorno alla linea dura del Cremlino. Sul piano internazionale, il richiamo al pericolo nucleare ha l’obiettivo di scoraggiare ulteriori pressioni occidentali, inclusi nuovi pacchetti di sanzioni e il sostegno militare all’Ucraina.

L’avvertimento lanciato da Maria Zakharova rappresenta l’ennesimo campanello d’allarme in un mondo sempre più diviso e polarizzato. Se le politiche aggressive e le risposte muscolari dovessero continuare, il rischio di una nuova era di instabilità globale e di una corsa agli armamenti nucleari appare sempre più concreto. In questo contesto, l’auspicio è che le potenze internazionali possano trovare un terreno comune per ristabilire un dialogo costruttivo e per evitare che il mondo precipiti in una nuova crisi, le cui conseguenze potrebbero essere devastanti per l’intera umanità.

La guerra non è soltanto una questione militare, un risiko di pedine che si muovono sui vari fronti. La guerra è soprattutto fiumi di denaro che dissanguano, inevitabilmente, gli stati e arricchiscono, invece, i trafficanti di armi e le aziende che li producono. E alla fine, non per paradosso ma per realtà oggettiva, lacerano lentamente il tessuto economico dei paesi interessati. Ma parliamo di numeri.

Razzi su Tel Aviv e Gerusalemme

Israele, con l’inizio delle operazioni di terra in Libano e l’attacco dell’Iran di ieri, rischia di portare il paese ad una crisi economica di proporzioni impensabili. La forchetta attuale si aggirerebbe tra i 67 miliardi di dollari, stimati dalla banca centrale israeliana e i 120 miliardi di dollari (circa il 20% del pil israeliano) come affermato dall’economista israeliano Yacov Sheinin.Ad agosto, infatti, la banca centrale israeliana aveva stimato il costo del conflitto per Israele tra il 2023 e il 2025 in 67 miliardi di dollari (di cui 32 miliardi per le sole spese militari), pari a quasi il 13% del pil del paese, al quale si aggiungeva 10 miliardi di dollari per finanziare il trasferimento dei circa 100 mila israeliani che hanno dovuto lasciare le loro abitazioni nelle vicinanze della Striscia di Gaza o del confine con Libano dopo che erano stati presi di mira dai razzi di Hamas e dell’Hezbollah. La riparazione dei danni causati da queste azioni veniva stimata ad agosto in 6 miliardi di dollari.

E’ particolarmente alto il costo della difesa del territorio. Israele con l’Iron Dome, che è stato schierato per la prima volta nel 2011 e con la ‘Fionda di Davide’ e con i missili Arrow riesce ad intercettare circa il 90% dei razzi. Ma a quale prezzo? Si stima che ogni missile dell’Iron Dome costi circa 50 mila dollari (ogni batteria dislocata su tutto il territorio comprende tre o quattro lanciatori che contengono 20 missili). I missili del sistema missilistico detto ‘Fionda di Davide’ che è stato progettato per abbattere missili balistici a corto, medio e lungo raggio a bassa quota costano circa 1 milione di dollari l’uno. Poi ci sono anche i missili Arrow il cui costo, secondo un ex consulente finanziario del capo di stato maggiore dell’Idf, è intorno ai 3,5 milioni di dollari l’uno.

Il sistema missilistico “Iron Dome”

L’economia israeliana, quindi, è una delle vittime collaterali del conflitto scoppiato dopo l’attacco del 7 ottobre di Hamas. Migliaia di aziende israeliane, infatti, si sono ritrovate in difficoltà anche a causa del fatto che i riservisti hanno dovuto imbracciare le armi. Circa 287.000 israeliani, riferisce il ‘Washington Post’, sono stati infatti chiamati a prestare servizio dopo il 7 ottobre, un numero particolarmente importante in un paese di meno di 10 milioni di abitanti. A questi lavoratori prestati all’esercito si aggiungono i circa 85 mila lavoratori palestinesi che operavano soprattutto nel settore dell’edilizia che sono praticamente scomparsi, poiché non sono stati autorizzati a lavorare in Israele a causa di problemi legati alla sicurezza e ai lavoratori stranieri che hanno lasciato il Paese.

CofaceBdi, a luglio, ha stimato che 46 mila aziende israeliane hanno chiuso a causa del conflitto in corso e ha previsto che entro la fine dell’anno il loro numero potrebbe salire fino a 60 mila (nel 2020 con il Covid circa 76 mila imprese erano state costrette a chiudere mentre in un anno normale il numero di imprese costrette a chiudere si aggira intorno a 40 mila).

“Non c’è un settore dell’economia che sia immune dalle ripercussioni della guerra in corso”, aveva spiegato al ‘Times of Israel’ il Ceo di CofaceBdi, Yoel Amir. A soffrire di più sono comunque le imprese che operano nei settori dell’edilizia, dell’agricoltura, del turismo, dell’ospitalità e dell’intrattenimento. “Le imprese stanno affrontando una realtà molto complessa: la paura di un’escalation della guerra, unita all’incertezza su quando finiranno i combattimenti, insieme a continue sfide come la carenza di personale, la bassa domanda, le crescenti esigenze di finanziamento, l’aumento dei costi di approvvigionamento e dei problemi logistici e, più recentemente, il divieto di esportazione da parte della Turchia, stanno rendendo sempre più difficile per le imprese israeliane sopravvivere a questo periodo”.

Dunque alla fine il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, dovrà mettere in conto se davvero questa operazione militare sia stata strategica oppure un boomerang dagli effetti imprevedibili. Il rischio di portare il paese verso una crisi grave crisi economica potrebbe essere il tallone di Achille, a beneficio dei suoi avversari politici. E non è detto che l’America faccia un pò alla Ponzio Pilato, in considerazione che a novembre si giocherà la partita per l’elezione del Presidente Usa.

(fonte adkronos e foto ansa)

 

 

E’ un attacco durissimo quello della Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen contro Putin che, in un video pubblicato su twitter, ha annunciato l’avvio della procedura per l’istituzione di un tribunale speciale sui crimini commessi dalla Russia contro il popolo ucraino.

“La Russia – ha affermato la Presidente von der Leyen – deve pagare per i suoi crimini orribili. Collaboreremo con la Corte penale internazionale e contribuiremo alla creazione di un tribunale specializzato per giudicare i crimini della Russia”.

“Con i nostri partner, ci assicureremo che la Russia paghi per la devastazione che ha causato, con i fondi congelati degli oligarchi e i beni della sua banca centrale. L’esecutivo europeo nelle prossime ore invierà ai Paesi membri una proposta ad hoc, per permettere che le responsabilità della Russia possano essere giudicate davanti a una Corte”. 

“La Russia – ha detto infine la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen – deve anche pagare per le devastazioni che ha provocato. Si stima che i danni subiti dall’Ucraina siano attorno ai 600 miliardi di euro e gli oligarchi devono risarcire e coprire i le spese per la ricostruzione, e noi abbiamo gli strumenti perché la Russia paghi. Abbiamo bloccato 300 miliardi di euro delle riserve della banca centrale russa e congelato 19 miliardi di euro degli oligarchi russi”.

(fonte ansa e foto ispionline.it)

Il video pubblicato sul profilo twitter di Ursula von der Leyen

E’ Rishi Sunak il nuovo premier britannico che sostituisce Liz Truss, dimessasi dall’incarico nei giorni scorsi. Il partito conservatore inglese, dunque, ha deciso. La maggioranza dei Tories ha scelto di incoronare il 42enne come nuovo leader del Partito e, automaticamente, anche come nuovo primo ministro. Sunak ha avuto la meglio contro gli altri due candidati alla leadership del partito: l’ex premier Boris JohnsonPenny Mordaunt, attuale leader della Camera dei Comuni che si è ritirata dalla corsa. Dopo le dimissioni di BoJo nel luglio scorso e quelle di Liz Truss, il 20 ottobre, Sunak diventa così il terzo premier britannico in poco più di tre mesi. Non solo: il nuovo leader dei conservatori, che ha origini indiane, sarà anche la prima persona non bianca a ricoprire il ruolo di primo ministro.

Nato a Southampton nel 1980 da una coppia di immigrati indiani, Sunak è cresciuto in una famiglia benestante. Suo padre Yashvir è medico, mentre la madre Usha è titolare di una farmacia. Dopo una laurea in Filosofia, politica ed economia a Oxford, Sunak vola negli Stati Uniti, dove ottiene un master in Business administration all’Università di Stanford. È lì che conosce Akshata Murty, figlia di un miliardario indiano fondatore del colosso informatico Infosys. I due si sono sposati nel 2009 e hanno avuto due figli. Una volta tornato nel Regno Unito, i primi passi di Sunak nel mondo del lavoro non sono nella politica, ma nel mondo della finanza: prima a Goldman Sachs (per quattro anni) e poi in alcuni fondi speculativi. Un passato che gli è valso l’appellativo di “uomo di Davos”, usato dai rivali laburisti in riferimento alla città svizzera che ospita ogni anno il meeting del World Economic Forum.

Rishi Sunak e Liz Truss

Negli ultimi mesi, Sunak non è stato esente da scandali. Ad aprile, i media britannici hanno scoperto che la ricchissima moglie Akshata Murty ha sfruttato per anni una controversa legge sul domicilio oltremanica per non pagare le tasse nel Regno Unito. Una rivelazione arrivata proprio mentre suo marito, nelle vesti di ministro delle Finanze, si preparava ad alzare le tasse per la prima volta dopo molti anni. Quelle stesse inchieste hanno poi portato a un’altra rivelazione: Sunak aveva da poco fatto richiesta per una green card negli Stati Uniti, probabilmente per trasferirsi oltreoceano. A tutto questo si aggiunge poi il partygate, lo scandalo in cui Johnson e alcuni suoi alleati, tra cui proprio il nuovo premier inglese, sono stati multati per aver violato le restrizioni anti-Covid. Le dimissioni di Sunak, arrivate il 5 luglio, sono state l’inizio di una serie di addii che ha portato al passo indietro di Johnson.

(fonte repubblica e openonline)

Lo scenario in Ucraina appare sempre più delineato e la presa di posizione degli Usa fa capire che lo scontro è ormai tra Biden e Putin.

“Bisogna muoversi più velocemente possibile per far arrivare agli ucraini le armi di cui hanno bisogno per difendersi nella nuova offensiva russa nel Donbass – e, per questo, gli Usa stanzieranno un nuovo pacchetto di aiuti militari per Kiev. L’importo anche stavolta sarà di 800 milioni di dollari. Ad annunciarlo è il presidente Usa Joe Biden, nel corso del discorso alla Casa Bianca per aggiornare gli americani sugli sforzi per assistere il popolo ucraino e presentare i nuovi aiuti, che sono stati finalizzati negli ultimi giorni.

“E’ ormai chiaro al mondo intero: la Russia ha lanciato e concentrato la sua campagna alla conquista di nuovi territori – ha aggiunto Biden – e noi ora siamo in una finestra cruciale di tempo durante la quale imposteranno la prossima fase della guerra”.

“La battaglia di Kiev è stata una storica vittoria per gli ucraini, una vittoria per la libertà, vinta dal popolo ucraino con l’aiuto senza precedenti” degli Stati Uniti ed i suoi alleati, ha detto ancora il Presidente degli Stati Uniti d’America, continuando: “Ora dobbiamo accelerare questo pacchetto di aiuti per aiutare gli ucraini a prepararsi per l’offesiva russa che sarà più limitata in termini di geografica ma non in termini di brutalità”, ha detto ancora Biden che nel discorso sottolineando più volte come, dopo la ritirata russa dall’area di Kiev, stiano emergendo “prove” degli “orrori” e dei “crimini di guerra” commessi dai russi.

Il presidente americano ha poi ribadito la convinzione che, di fronte ai “coraggiosi militari e civili ucraini” e il continuo sostegno degli Usa e degli alleati, Vladimir Putin “non potrà mai vincere, non potrà mai riuscire a dominare ed occupare l’Ucraina”.

“Prima di tutto è da vedere se veramente controlla Mariupol“, ha poi risposto alla domanda di un giornalista su cosa significhi per Vladimir Putin la conquista della città ucraina che ha assediato per settimane. “Una cosa certa sappiamo di Mariupol – ha poi aggiunto -, è che dovrebbe lasciar passare gli aiuti umanitari per permettere alle persone di uscire. Questo è quello che ogni capo di Stato farebbe in queste circostanze”. Il presidente americano ha poi continuato ribadendo che “non ci sono ancora prove che Mariupol sia completamente caduta“.

Non sappiamo – ha detto ancora il presidente Usa – quanto durerà questa guerra ma mentre ci avviciniamo alla soglia dei due mesi, ecco quello che sappiamo: Putin ha fallito nelle sue grandi ambizioni sul campo di battaglia. Dopo settimane di bombardamenti, Kiev ancora regge, il presidente Zelensky e il governo democraticamente eletto rimangono al potere”. Biden ha ripetuto più volte come sia cruciale per Kiev il “costante flusso di armi, munizioni, intelligence da tutte le nazioni del mondo libero guidate da noi”.

Il nuovo pacchetto di aiuti – che comprende artiglieria pesante e munizioni – porterà il 3,4 miliardi di dollari il totale dell’assistenza militare fornita da Washington a Kiev dall’inizio dell’invasione russa lo scorso 24 febbraio. Nei giorni in cui è stato messo a punto il nuovo pacchetto, Biden ha avuto una video chiamata con gli alleati, lunedì scorso, al termine della quale anche altri Paesi hanno annunciato nuovi invii di armi a Kiev.

Intanto il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky ha ringraziato Biden: “Sono grato al presidente degli Stati Uniti e al popolo americano per la leadership nel sostenere il popolo ucraino nella lotta contro l’aggressione russa. Questo aiuto oggi è necessario più che mai! Salva la vita dei nostri difensori della democrazia e della libertà e ci avvicina al ritorno della pace”.

(fonte agenzia adnkronos – afp)

Putin continua ad attaccare l’Unione europea, rea a suo dire di aver adottato pesanti sanzioni contro la Russia. Lo “zar” utilizzerebbe, dunque, il gas come arma di ricatto.

“I cosiddetti partner dei Paesi ostili – dice lo zar del Cremlino – ammettono di non poter fare a meno delle risorse energetiche russe, compreso il gas naturale, per esempio. I suoi sostituti ragionevoli per l’Europa semplicemente non sono disponibili ora. Sì, è possibile, ma ora non è disponibile. Tutti lo capiscono. Semplicemente non ci sono volumi gratuiti sul mercato mondiale. E le consegne da altri paesi, principalmente dagli Stati Uniti, che possono essere inviate in Europa, costeranno ai consumatori molte volte di più”.

Un’altra dichiarazione più che esplicita di Putin, che tenta ulteriormente di mettere all’angolo l’Europa e costringerla a comprare il gas russo. Una situazione che pone, ovviamente, delle riflessioni ma soprattutto alle soluzioni da trovare che, purtroppo, non saranno e non potranno essere immediate.

IL VIDEO

(fonte agenzia Vista e sito open.online)

Parole pesanti come le pietre, quelle del Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden, contro Vladimir Putin. E attaccando direttamente il capo del Cremlino parla dello “zar russo” come di “un dittatore che commette un genocidio”.

“Il vostro bilancio familiare, la vostra capacità di fare il pieno – aggiunge Biden nel corso della visita in Iowa, parlando dell’aumento dei prezzi dei carburanti – niente di tutto ciò dovrebbe dipendere dal fatto che un dittatore dichiari guerra e commetta un genocidio dall’altra parte del mondo”.

Finora il presidente americano aveva parlato di crimini di guerra, ma non di genocidio. Il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, nei giorni scorsi aveva specificato che “vediamo atrocità, crimini di guerra, ma ancora non vediamo un livello sistematico di deprivazione della vita del popolo ucraino che arriva al livello di genocidio”.

Interpellato domenica scorsa dalla Cnn, Sullivan aveva detto che non è importante l’etichetta di genocidio o no, “quanto il fatto che queste sono azioni crudeli e criminali, alle quali bisogna rispondere in modo deciso”.

Il presidente americano nelle scorse settimane aveva definito il presidente russo “criminale” e “macellaio”.

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(Fonte agenzia vista e adnkronos – foto AFP)