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Stanislao Lauricina

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Le indagini su quello che ormai tutti chiamano “Sistema Montante” svelano una sorta di pericolosa evoluzione del “professionismo dell’Antimafia” che qualche decennio fa contribuì a lanciare e consolidare carriere. Il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, a Messina, ieri parlava di “antimafia usata come brand”.

Niente di nuovo, Leonardo Sciascia lo denunciò con maggiore coraggio più di trent’anni fa. All’epoca della palude democristiana, a cavallo degli anni ’80 e ’90, qualcuno strepitando in salotti e talk show divenne un simbolo della lotta alla mafia. Anche senza fare nulla, se non, appunto, presenziare, scrivere articoli o libri, pieni di slogan o analisi sociologiche di scarso valore. Politici, giornalisti, preti, dirigenti dell’associazionismo, diventarono potenti, conquistarono spazi e poltrone. Ormai, però, il loro tempo è passato, loro sono per lo più superati. Soltanto qualcuno regge ancora; gli altri si limitano a comparire due volte all’anno, il 23 maggio e il 19 luglio.

Fatta la loro passerella, dette le due parole in fila, spariscono di nuovo. Quanto sta emergendo in questi giorni dice una cosa diversa, rivela un metodo nuovo, racconta di infiltrazioni nei gangli vitali del potere vero. Di poltrone conquistate con servi più o meno sciocchi, ma di stanze dei bottoni occupate da fedelissimi per fare affari. Mentre quelli, gli antimafiosi di facciata, urlavano i loro slogan al megafono, gli altri nei corridoi e nelle segreterie della politica, degli assessorati, a quanto pare, condizionavano, sceglievano assessori e burocrati, che poi redigevano decreti, bandi, emendamenti, assegnazioni. Con quel crisma, potevi fare di tutto, le operazioni più spregiudicate, le nomine più discutibili, le assegnazioni più controverse.

I magistrati nisseni parlano di controllo totale del governo della Regione. Tutto sotto le insegne della legalità, dell‘antimafia di facciata, usate come unzione divina, come distinzione fittizia e truffaldina tra “noi” e “loro”, propagandata in ogni occasione possibile, anche in tv. Chi alzava il dito, chi faceva notare le stranezze, voleva intralciare il cammino verso l’affermazione della legalità. Certe intercettazioni raccontano proprio questo. La voce sarebbe sempre quella di Antonello Montante, colui che avrebbe tirato i fili di tutto, ai quali fili, però sarebbero stati legati, dall’altro lato, politici, amministratori, imprenditori, burocrati, poliziotti e chissà cos’altro. E “loro” non erano necessariamente i mafiosi, ma chiunque non fosse con loro. Che diventava il nemico da bollare, da condannare, da ridurre ai margini, da escludere in ogni senso e con ogni mezzo. Nessuna pietà, specie con gli ex amici.

Un cerchio magico, un giro di relazioni che ora sta emergendo come un tumore, l’ennesimo, che sta consumando il corpo di una Sicilia martoriata, dove gli avvoltoi si sono affollati per divorare quel poco che resta ormai da spolpare.

L’ondata montante dell’antimafia dei riflettori, dei comunicati stampa, lascia il posto alla marea calante della vergogna del ridicolo, dell’imbarazzato silenzio.

È la natura, è il flusso e riflusso dettato, diciamo, dalle fasi lunari. Ecco, la fortuna è lunatica. C’era chi ci faceva biciclette e voleva dare patenti di legalità. Ora, scopriamo che forse (perché bisogna sempre aspettare le sentenze) aveva pure le ruote bucate.

La bicicletta di Montante all'aeroporto di Palermo...con le ruote sgonfie....
La bicicletta di Montante all’aeroporto di Palermo…con le ruote sgonfie….

C’era chi diceva di voler fare le rivoluzioni, ma ha lasciato soltanto macerie politiche, umane, economiche: un buco nero da abolire con una sbianchettata. E va bene. Per quanto ci sforziamo di trovare riferimenti diversi, la Sicilia è sempre la terra di Pirandello, piena di personaggi da commedia che credono di essere eroi di un’epica che non gli appartiene. Achille era Tersite e Patroclo era soltanto un accattone.

Rosario Crocetta
Rosario Crocetta

Poveri, sì. Mafiosi e ignoranti, no. Michaela Biancofiore, la parlamentare bolzanina (ma di origini meridionali) di Forza Italia “sputtanata” per le sue parole a L’Aria che tira, su La 7 (“le elezioni in estate favorirebbero il Movimento 5 stelle, che ha fatto il pieno di voti al Sud, dove sono troppo poveri per andare in vacanza e potrebbero andare alle urne anche col solleone”, il senso delle sue parole), paladina degli italiani del Sud? Sembra di sì e per dimostrarlo, la bionda forzista ha postato un divertente video di uno scontro, in una trasmissione de La 7 condotta da Cristina Parodi, con l’inglese John Peter Sloane che definì gli abitanti di alcune regioni meridionali “meno istruiti” rispetto a quelli del nord. Altri tempi, era il 2012. Quanto era infervorata la Biancofiore nel difendere noi del sud: “Ma come si permette a definire siciliani e lucani mafiosi e ignoranti?” Urlava al perfido britannico famoso per i suoi corsi di inglese e l’accento alla Stanlio e Ollio.

Mafiosi, no. E nemmeno ignoranti. Poveri sì. E mica lo dice lei, la Biancofiore. No, lo dice l’Istat. In un report del 30 ottobre del 2017 sui flussi turistici del 2016. Che, però, tutto dice, tranne che i meridionali non vadano in vacanza perché senza i soldi necessari. Biancofiore pataccara, quindi? No, almeno secondo lei, il pataccaro è il grillino Sibilia che ha diffuso sui social il video della forzista che insiste: “Come abbiamo potuto osservare tutti il 4 marzo, il Movimento ha vinto al Sud piuttosto che al Nord perché ha saputo fare propaganda col reddito di cittadinanza facendo leva proprio sulla povertà e sulla mancanza di lavoro, ingenerando speranza . E’ vero che i residenti, spesso, avendo a loro disposizione luoghi unici e mare caraibico, spendono le vacanze nei luoghi dove vivono tutto l’anno piuttosto che andare altrove ma è altrettanto vero, dati ISTAT alla mano che la povertà al Sud impedisce spesso gli spostamenti turistici . Va da se che è più facile per chi è stanziale e -più probabile , recarsi alle urne rispetto agli italiani residenti al Nord .
Mi preme ricordare a tutti che i miei genitori sono nati in Puglia, per poi emigrare al Nord per motivi di lavoro e per un futuro migliore come migliaia di meridionali. Purtroppo da sempre il Sud riversa in condizioni di povertà rispetto al Nord, motivo per il quale tutte le forze politiche dovrebbero impegnarsi nella ricerca di una soluzione a questo momento di stallo istituzionale”.

Oggi non sappiamo ancora se Luigi di Maio e Matteo Salvini riusciranno a far quadrare il cerchio e a firmare il contratto che porterà alla nascita del prossimo governo. Ma l’esito positivo è più che probabile e avremo il primo governo a sei stelle, le cinque del movimento grillino più quella delle Alpi del simbolo della Lega. E sarà, se sarà, un fatto nuovo per la politica italiana. Certamente, non ratificherà la nascita di una Terza Repubblica, ma segnerà una svolta epocale: al centro di un patto di governo, non ci saranno le affinità ideologiche, le alchimie onomastiche, i richiami a ideali, ascendenze, leadership, ma il riferimento al fare, alle cose. Magari, per gli osservatori stranieri questa non sarà una novità.

Sarà inquietante l’intesa tra forze populiste, euroscettiche, non perfettamente o per nulla allineate rispetto al trend della politica delle capitali che “contano”. Ma a questi analisti di oltre confine, il richiamo alle cose da fare non susciterà particolare interesse. All’estero è normale, è la politica: trovare soluzioni ai problemi del paese, pragmaticamente, senza tante discussioni. Sono le ricette a dividere, non il pedigree. In Italia non è così. C’è ancora chi si affanna a definire il governo nascituro “di destra”, come se significasse ancora qualcosa, in questa epoca di democrazia digitale.

Ideologie, identità, tradizione, partecipazione, partiti, non contano più nulla, non portano più a niente e, soprattutto, non portano più voti. Contano i leader, i programmi, anzi, gli slogan: trovi un argomento forte, particolarmente sentito dalla gente; lo cavalchi, lo fai tuo, ti rendi riconoscibile su quello e vai avanti. Naturalmente, per il bene della collettività, del Paese. Ecco, Di Maio (o chi per lui) e Salvini questo lo hanno capito e, anche grazie alla forza dei numeri, lo stanno facendo fruttare, per far nascere un governo spurio, tra forze che, per loro natura, non hanno granché in comune, se non un certo dna “antisistema” che si declina comunque in modi e direzioni diversissime. Non chiamatelo incucio, no. Chiamatelo governo di contratto o “a sei stelle”.