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Gaetano Càfici

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di Gaetano Càfici. Il grido di dolore e di speranza, che abbiamo ascoltato a Lampedusa nelle parole del vero e unico rivoluzionario moderno, chiamato Papa Francesco, è caduto nel limbo dell’indifferenza. 

Di questa strana sindrome, che pervade la nostra società e di cui non riusciamo a trovare l’albero genealogico, siamo costantemente colpiti come lo si fa con i birilli che stanno là, statici, a subire colpo dopo colpo. 
Brutta parola l’indifferenza, ma ancor più brutta l’immagine di quel “lager”che, a Lampedusa, dovrebbe essere un luogo di accoglienza e, invece, diviene girone infernale. Le parole del Papa come gocce instillate a chi ha perduto di vista il senso delle cose. Nulla sarà come prima in quel luogo di martirio, dove i trafficanti di uomini non vengono “fermati” e dove la politica fa solo passerella per evidenti “ragion di stato”.
 
Si sente parlare di confini che l’uomo può solo disegnare nelle carte geografiche e che sembrano inesistenti, ma ciclicamente varcati per portare quell’effimera speranza di una vita migliore. In fondo nell’isola che non c’è”, le parole di “Francesco il rivoluzionario” rimangono inascoltate. Come se si trattasse di sillabe usate solo per riempire dei fogli vuoti.
Parole dure, invece, come le pietre che non possiamo dimenticare: immigrati morti in mare, da quelle barche che, invece di essere una via di speranza, sono state una via di morte. Risvegliamo le nostre coscienze, perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore”.

E talmente dimenticate, come quelle bocche cucite con ago filo da quegli uomini disperati che con quel gesto hanno voluto lanciare l’urlo silenzioso e estremo all’indifferenza dei governanti del mondo, spettatori privilegiati, ma incapaci di ascoltare le parole dell’ultimo grande uomo della terra. 
Sordi e ciechi per bieca utilità. Perché non porta “gloria” parlare degli “ultimi”, di uomini, di donne e bambini inghiottiti da un mare che come diceva il mio amico pescatore: “può essere buono, ma allo stesso tempo tradituri”. 

 

di Gaetano CàficiSe geograficamente la Sicilia fosse collocata in un’area diversa, potremmo  tranquillamente immaginare che sia preda e vittima di una cerimonia da macumba o da rito voodoo. Una sorte di maledizione che da fin troppi anni la colpisce. Un virus di cui sembra non esserci antidoto. Prima Cuffaro, poi Lombardo e adesso anche l’uomo della rivoluzione, alias Crocetta “El Che”. 

Si tratta certamente di “malattie” che si manifestano con sintomi assolutamente diversi tra loro, ma pur sempre devastanti e con un decorso da triste epilogo: la “morte politica” dei presidenti della Regione che, negli ultimi 15 anni, l’hanno governata. Diagnosi e cura sono in fase di studio nell’Area 51 (quella degli alieni tanto per intenderci). Però, come all’improvviso, il mago merlino, l’uomo della cabala nostrana, l’Aiazzone della politica siciliana ci sorprende con una dichiarazione che rimarrà negli annali e nella storia: “sarò costretto a pubblicare una Finanziaria che non mi appartiene, che ripudio, che canta il de profundis al posto di lavoro di migliaia di lavoratori, che uccide la diversabilità e impedisce ai non vedenti di studiare, che butta sul lastrico migliaia di famiglie e impone alla Sicilia una manovra depressiva senza precedenti, che potrà influire sulla tenuta sociale della Regione, che affossa le imprese e influirà negativamente sul rating nazionale e regionale”. Lui che fino adesso non ha fatto altro che applicare  la “scienza dei numeri”: tagliare, quindi licenziare, per risparmiare. Diciamo un “precursore” dei tempi! 

E poi l’atto finale da vera e propria commedia dell’arte: “faccio appello al Capo dello Stato, affinché intervenga in questa situazione terribile, perché si possa trovare una soluzione rapida che permetta alla Sicilia di rilanciare le politiche di sviluppo, di crescita e di solidarietà. Per me il giorno di pubblicazione della finanziaria è un giorno di grande tristezza, che trascorrerò pregando per la Sicilia e per il popolo siciliano, perchè non debba più subire violenze cieche e irrazionali. Sono pronto al confronto istituzionale, ma con fermezza, sapendo che in ballo non ci sono i giochetti della politica politicante, ma gli interessi di un intero popolo che ha già subito tante violenze e che oggi viene massacrato”.

Come dire, io in fondo non ho colpa di ciò che sta accadendo, perché attenzione: trattasi di malattia seria e, forse, anche incurabile. Presidente, però almeno ci risparmi la preghiera. Quella la lasci agli abiti talari, così come le solite lacrime di coccodrillo. Quest’ultime, le consiglio di tenerle per l’atto finale.

(di redazione). Ci sono luoghi che raccontano pezzi ormai dimenticati di vita quotidiana ancora legati a quella cultura contadina che in Sicilia è sopravvissuta sino a qualche decennio fa all’affermarsi dei modelli imposti dalla realtà urbana. 

Uno di questi luoghi è “u Canali” di Acate, la cittadina in provincia di Ragusa al centro di un territorio un tempo coltivato per lo più a vigne, ulivi ed agrumi e più recentemente ricoperto da decine di serre. “U Canali” è la storica denominazione locale di un lavatoio costruito nel 1911 nella zona di contrada Canale, su progetto del perito agronomo di Niscemi Rosario Cavalieri Iacono.

Ciò che resta della struttura testimonia ancora un tipico esempio di edilizia idraulica di servizio per la popolazione locale; il lavatoio era infatti utilizzato dalle donne della zona per lavare i propri panni, oppure per pulire – a pagamento – quelli di altre famiglie. L’opera, costruita in pietra da taglio, cemento e con rubinetteria in ottone, come ricorda Gaetano Masaracchio, “era costituita da venti vaschette di lavaggio poste in due filari, fra i quali si trovavano la canaletta che ripartiva l’acqua per la lavatura della biancheria e quella che raccoglieva le acque di lavaggio”.  
Lo stesso Masaracchio aggiunge che “l’intero lavatoio” – dagli anni Sessanta ai nostri giorni dapprima abbandonato e poi andato in rovina – “era coperto da una tettoia, al fine di salvaguardarne le lavandaie dal sole e dalle intemperie”. La struttura del lavatoio di Acate era la testimonianza della ricchezza dei materiali da costruzione di una serie di paesi e città del circondario: la calce comune da Vittoria, quella idraulica da Caltagirone, la pietra da taglio da Ragusa. 
Ciò che oggi resta del lavatoio – un tempo luogo di lavoro ma anche di socializzazione per donne, pastori e bambini di Acate – è l’ennesima testimonianza del degrado di tanti poco conosciuti beni culturali della Sicilia: manufatti che magari non compaiono nelle guide turistiche e nei libri di storia dell’arte, ma che raccontano la storia delle comunità locali dell’isola. 


 

di g.c. I sim­bo­li so­no ico­ne sen­za tem­po che non mu­ta­no mai. Ge­ro­gli­fi­ci che attraver­sa­no ogni epo­ca. Di que­sti Pa­ler­mo è pie­na. Ba­sta guar­dar­si in­tor­no. Pos­sia­mo fa­re una rap­pre­sen­ta­zio­ne qua­si di­da­sca­li­ca del­le sto­rie vec­chie e nuo­ve che si in­cro­cia­no e de­gli even­ti che si sus­se­guo­no. Qua­si co­me una stret­ta commistio­ne tra vi­ta e mor­te. 

Sem­bra di ve­der­li nel­le tantis­si­me la­pi­di com­me­mo­ra­ti­ve, che pos­sia­mo scor­ge­re die­tro ogni no­stro pas­so e che ten­go­no for­te la me­mo­ria di una cit­tà mar­chia­ta, ma mai pie­ga­ta. Ma an­che nei luo­ghi di ri­na­sci­ta e ne­gli spa­zi re­cu­pe­ra­ti, che cer­ca­no di sopravvive­re al de­cli­no inar­re­sta­bi­le di una Pa­ler­mo che non si indi­gna più da trop­po tem­po. Quel­la di ie­ri, umi­lia­ta dal­l’in­dif­fe­ren­za ed im­po­ve­ri­ta cul­tu­ral­men­te. E quel­la di og­gi, an­co­ra assopi­ta.La nor­ma­li­tà di­vie­ne ri­to quo­ti­dia­no. Tut­to ta­ce. Un si­len­zio an­co­ra più for­te e lan­ci­nan­te che, nel po­me­rig­gio di qual­che mese fa, men­tre pas­seg­gia­vo ai Quat­tro Can­ti, è di­ve­nu­to ve­ro buio. 
La Fon­ta­na del­la Ver­go­gna di Pa­ler­mo, luo­go e sim­bo­lo più al­to del­la sto­ria del­la no­stra cit­tà, aveva de­ci­so di non zam­pil­la­re più, fa­cen­do sen­ti­re for­te la sua vo­ce di do­lo­re. Uno scio­pe­ro silenzio­so. Una pro­te­sta per af­fer­ma­re quel di­rit­to di le­sa mae­stà, do­po tan­ti se­co­li di ono­ra­to servi­zio.Le sta­tue raf­fi­gu­ra­ti gli dei del­l’O­lim­po do­mi­na­va­no il mio sguar­do, co­me se vo­les­se­ro par­lar­mi. Loro da sem­pre spet­ta­to­ri di pri­ma fi­la e ades­so, in­ve­ce, sem­pli­ci cu­sto­di di log­gio­ne. Ho pen­sa­to che il mio era sol­tan­to un brut­to so­gno. Di quel­li che non vor­re­sti mai fa­re.
Poi so­no ri­tor­na­to sui miei pas­si ma la fon­ta­na era sem­pre “spen­ta”, co­me sen­z’a­ni­ma, e co­sì è ri­ma­sta fi­no a qual­che gior­no fa, quan­do l’ho ri­vista am­pil­la­re. Pen­san­do­ci be­ne, ma che im­por­ta mi so­no det­to. In fon­do par­lia­mo so­lo di quat­tro zam­pil­li e di uno “scio­pe­ro” co­me tan­ti. E poi non di­cia­mo­lo in gi­ro, chis­sà che le al­tre fon­ta­ne pos­sa­no se­guir­ne il cat­ti­vo esem­pio.
Ho sempre ritenuto Berlusconi un maestro di ingegno. Di quelli sagacemente abili nel trasformare i tanti ranocchi del suo stagno in principi da corte. Dote direi rarissima, ma indiscutibilmente vera. Nessuna possibilità di smentita o di dubbio. Quasi come un dogma da filiazione estrema.


Il suo ego autocelebrativo non ha eguali, anche se io sostengo che se si cerca bene, nelle pieghe di questo nostro Paese, qualche altro Mr. B. in fasce lo troveremmo sicuramente. Ma mi spiego meglio. In tempi diciamo non sospetti, cioè quando l’uomo di Arcore era ancora lontano dalla politica, lui era già un incredibile venditore di se stesso e delle sue aziende. Uno straordinario calumet, un cerimoniere che ammaliava le platee di tutta Italia dispensando consigli e segreti ai suoi venditori. Publitalia docet. Diceva sempre: “Ricordate che ai clienti bisogna parlare per immagini piuttosto che per concetti. La logica convince ma viene presto dimenticata, invece l’immagine colpisce e viene sempre ricordata”. Insegnamenti “sacri” di cui gli italiani hanno fatto tesoro per quasi un ventennio.
Però, c’è sempre un però nella storia di ognuno di noi. Silvio, l’uomo dalla statura del rialzo, l’Araba fenice del secondo millennio, ci sorprende ancora e ci lascia trasecolati anche nei suoi riti epistolari a noi conosciuti: dal contratto con gli italiani fino agli opuscoli elettorali puntualmente recapitati ai nostri domicili a qualche giorno dal voto. Ed è proprio nella lettera che ho trovato nella mia cassetta postale il manifestarsi di tutto il mio stupore. 
Lui, il venditore di Arcore, che scrive per ricordarmi tutto ciò che ha fatto e farà per il nostro bene chiedendo, infine, il mio sostegno alla sua battaglia politica. Leggo e rileggo le righe. Ma all’improvviso mi accorgo che il “Caro Francesco” a cui lui si rivolgeva non potevo essere io. Guardo bene la busta e mi accorgo che il destinatario era mio padre che, nell’aprile del 2008, aveva lasciato la vita terrena per l’eterno riposo. Sorrido e per un attimo il mio pensiero va al mio caro papà riportato in vita, per qualche istante, da Berlusconi. Se non è questo il vero miracolo italiano: riuscire a scrivere e a parlare persino ai morti.

di Gaetano Càfici Io sono figlio della libertà e lo resterò per sempre”. La prende così il Presidente della Regione Crocetta alle parole del capogruppo del Pds all’Ars Roberto di Mauro, secondo cui “una nuova maggioranza politica mette con le spalle al muro Crocetta con l’obiettivo di imprigionarlo ed imbrigliarlo”.

“Deve ancora nascere chi mi metterà con le spalle al muro”. Ribatte sonoramente ! “Forse ancora non mi conoscono molto bene negli ambienti politici. Chi pensa che io possa restare imbrigliato in strane maggioranze si sbaglia di grosso”. E poi passa al rito della citazione : “i sufi sono figli della libertà come me e dicevano ‘Dio mio, il giorno del giudizio fammi risorgere incatenato’. In altre parole mi pongo il problema di autolimitarmi la libertà perché sono un uomo molto libero, figuriamoci se mi faccio trattenere dall’esterno”. Ma qui supera se stesso ! “Una cosa è certa  non ho mai accettato le imposizioni nella mia vita, sono sempre stato aperto a ogni confronto o discussione. E sbaglia chi pensa che io mi faccia incatenare. Nessuno immagini che dentro un accordo istituzionale ampio io possa essere schiacciato”.

Più che figlio della libertà, concetto nobile, assolutamente serio, e  poco assimilabile, se non demagogicamente, ad un contesto politico, direi che Crocetta è l’esatto opposto del mio figlio delle stelle, ma non quello canzonettaro.Vi racconto la storia. Esisteva veramente un figlio delle stelle che nelle serate estive di molti anni fa, guardava il cielo e mi raccontava il domani. Mi diceva del bello e del cattivo tempo. Era un pescatore. Io lo ascoltavo rapito dalla sua voce roca, dalle sue mani che sembrano cucite dalle reti che ogni sera all’imbrunire andava a calare assieme alle sue nasse. Mi parlava del vento, del maroso, e di quanto il mare poteva dare la vita ma allo stesso tempo servire la morte. Ero un giovane ragazzo che gli voleva bene. Una mattina, dopo averlo visto partire la sera prima per la sua battuta di pesca, lo aspettai come facevo sempre sulla spiaggia di Puntaraisi. Ma non tornò più.  Lui per me è il vero figlio della libertà e delle stelle. Libertà che mi piace coniugare anche con la parola umiltà.  Presidente Crocetta, quando può, ascolti il rumore del mare e sentirà la voce di libertà del mio caro amico pescatore: figlio delle stelle e del suo mare.